lundi 11 février 2013


Dalle privatizzazioni 271 miliardi
road map di 5 anni per chi governerà

Uno studio dell'Istituto Bruno Leoni stima gli introiti possibili nei prossimi cinque anni attraverso un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare e delle partecipazioni in società quotate e non. Tra gli effetti anche il risparmio di 11 miliardi all'anno sulla spesa per interessi e un abbattimento di oltre 17 punti del rapporto debito-Pil riconducendolo alla soglia ben più che psicologica del 100%

di VALENTINA CONTE
ROMA - Raggiungere il 100% nel rapporto tra debito pubblico e Pil non sarebbe solo come varcare le colonne d’Ercole del mare più torbido che affoga l’Italia, verso la navigazione libera nell’oceano blu delle possibilità. Ma anche scommettere sul ritorno del Paese tra i grandi della terra, di nuovo competitivo, non più zavorrato, all’avanguardia, in grado di creare lavoro di qualità, innovazione, opportunità. Un sogno? Forse.
Ma la soglia d’oro, quella che uguaglia la ricchezza al debito - tanto possediamo, tanto dobbiamo - e che l’Italia ha raggiunto agli inizi degli anni ’90 per poi sorpassarla come una lepre sempre più rapidamente, è davvero raggiungibile? Secondo alcuni centri di ricerca e scuole di economisti sì. Però solo puntando su un programma massiccio di privatizzazioni. Dunque vendita di immobili e partecipazioni azionarie, ora nelle mani dello Stato.

L’ipotesi più estrema prevede alienazioni per un introito pari a 271 miliardi in cinque anni: 136 da immobili, 135 dalle partecipazioni. Ovvero il 13,5% del debito che porterebbe il rapporto col Pil giù di oltre 17 punti, farebbe risparmiare circa 11 miliardi l’anno di spesa per interessi, che equivale a quasi lo 0,7% di Pil in meno di spesa. Considerando l’effetto della crescita prevista del Pil nel prossimo lustro, seppur pallida (circa l’1% annuo), l’effetto combinato di “meno debito-meno interessi-meno spesa-Pil positivo”, ricondurrebbe il rapporto debito-Pil proprio alla fatidica soglia, ben più che psicologica, del 100%.

I fautori di questa ipotesi - i cui detrattori dipingono come “svendita” di Stato, piuttosto che vendita - sono trainati dalle proiezioni liberiste dell’Istituto Bruno Leoni, contenute nel rapporto "Liberare l'Italia - Manuale delle riforme per la XVII legislatura". I ricercatori partono dal rapporto chiave debito-Pil, allarmante nelle sue proporzioni attuali ufficiali: 126% pari a 2 mila miliardi di euro. Che tuttavia non contabilizzano i debiti commerciali della Pubblica amministrazione con le imprese: altri 80 miliardi. E così arriviamo al 131% del Pil. Dai primi anni ’90 il debito non ha fatto altro che lievitare. In quelli più recenti della doppia crisi, finanziaria e dei debiti sovrani (2008-2011), si è ingrossato a un ritmo di 50 miliardi l’anno. Il 2012 del “governo tecnico” non ha fatto eccezione. La spesa per interessi, la vera zavorra, è pari a 80 miliardi e in continua balia dei mal di pancia dello spread, visto che l’83,5% del debito italiano è finanziario, cioè fatto da titoli di Stato (1.650 miliardi). E di questa fetta il 66,2% sono Btp.

Ora, le privatizzazioni non sono certo la panacea di tutti i mali. Anche i fan di questa tesi, sempre più numerosi a dir la verità e con sfumature diverse anche trasversali alle principali forze politiche, ritengono che un buon piano di alienazione dovrebbe essere accompagnato da un programma parallelo di tagli selettivi della spesa pubblica monstre, circa 790 miliardi (di cui 295 “aggredibili” secondo lo studio di Giarda sulla spending review, dunque inefficienti), e contestuale riduzione delle tasse, specie sul lavoro e le imprese (la pressione fiscale secondo Confesercenti è al 45,3% del Pil nel 2013, la terza più alta nei Paesi Ue a 27).

Valore atteso nei prossimi 5 anni dalla privatizzazione di proprietà pubbliche (immobili e società)
AssetValore atteso (mld euro)
Immobili"Parte libera"43
Non liberi13
 Edilizia residenziale pubblica80
SocietàQuotate44
Non quotate91
Totale 271
(risparmio annuo su interessi) -11

Ma nell’immediato, nel tempo della prossima legislatura, occorre anche una terapia d’urto. Il debito pubblico si abbatte in due modi: avanzi di bilancio o entrate straordinarie. I primi si ottengono aumentando le entrate (tasse) o diminuendo le uscite (la spesa). Le seconde, con le vendite di patrimonio pubblico o con una patrimoniale. Le strade della politica qui divergono. Ma per chi voglia puntare sulle privatizzazioni il campo è aperto. Il patrimonio dello Stato ammonta a 1.815 miliardi: il 33% fa capo all’amministrazione centrale, il 67% a Regioni ed enti locali. Gli immobili valgono 420 miliardi, le partecipazioni 130.

Il mattone per il 70% è nelle mani di Comuni, Province e Regioni (348 miliardi contro i 72 dello Stato). Soprattutto in quelle di ottomila sindaci (oltre i due terzi), quindi particolarmente frammentato. Di questi 420 miliardi, la quota libera per essere ceduta in tempi relativamente breve, il prossimo quinquennio, è pari a 136 miliardi, otto punti e mezzo di Pil, in pratica 25-30 miliardi l’anno, oltre un punto ogni anno. I 136 miliardi sarebbero così composti: 7 dello Stato centrale liberi più altri 7 non liberi (il 10%), 37 degli enti locali (di cui 6 delle Province non “liberi”), 4 delle Asl, 1 delle Università e 80 dell’edilizia residenziale pubblica (ceduto agli attuali inquilini con diritti di prelazione). Come vendere massimizzando gli introiti, garantendo la trasparenza e senza escludere eventuali investitori stranieri? Affidando gli immobili, in lotti medio-piccoli, a fondi ad hoc e usando il meccanismo dell’offerta pubblica di vendita o dell’offerta con asta.

Sulle partecipazioni azionarie, la proposta è ancora più estrema. Venderle tutte, sia quelle che lo Stato possiede, tramite il Tesoro, in società quotate (44 miliardi) come Eni, Enel, Finmeccanica, sia quella in società non quotate (91 miliardi), come le Ferrovie dello Stato. In totale 135 miliardi (sommando anche le quote detenute in Cassa depositi e prestiti e incorporando un premio di controllo del 20% sulle società quotate). Risultato: non solo fare cassa, ma erodere i monopoli, liberalizzare i mercati e incentivare la concorrenza. Il livello di complessità, secondo i sostenitori di questa tesi, sarebbe basso e sicuramente più veloce e fattibile della cessione del mattone di Stato, specie per le quotate, il cui prezzo lo fa il mercato. Ma per essere efficace, l’alienazione dovrebbe essere appunto totale e senza golden share o “noccioli duri” di controllo dello Stato. Sempre che ci sia qualcuno che sia disposto a comprare. E sempre che ci sia la voglia di vendere. Su questo, come sul mattone di Stato, le colonne d’Ercole della politica sono sempre ben serrate.
(10 febbraio 2013)


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